Lo stato delle cose secondo le attuali politiche del Presidente Usa e di quello cinese. Gli States in crisi per rilanciarsi hanno bisogno di riportare in patria le produzioni delocalizzate nei Paesi orientali.
di Angelomauro Calza
Toccami Ciccio, Ciccio mi tocca: è con questo detto espressione di tradizione popolare che potremmo oggi sintetizzare i rapporti che intercorrono tra Donald Trump e Xí Jìnpíng e che coinvolgono poi le politiche economiche mondiali.

Donald Trump
Se lo statunitense ostenta sicurezza anche il cinese non è da meno (lo vedremo domani), ma la verità è che entrambi non navigano certo in acque tranquille. Si sbaglia a pensare a un Trump che procede zigzagando, prima introducendo dazi, poi abolendone alcuni, sospendendone altri per poi ripristinarli ancor più alti nei confronti della Cina e meno penalizzanti per altri Paesi in un gioco al rialzo che non provoca giovamento alcuno a nessuno. Comunque sia, che lo si voglia o no, che piaccia o no, se il nome “Donald” ha radici etimologiche che riportano solo per coincidenza al significato di “dominatore del mondo” e vale per tutti i Donald, il Tycoon (dalgiapponese ta «grande» e chun «dominatore») è diventato Tycoon proprio per la sua abilità a muoversi nel mondo dell’imprenditoria e dell’economia globale prima ancora di diventare Presidente degli Stati Uniti e molto probabilmente proprio per questo lo è diventato due volte, anche se per essere promosso dominatore del mondo la strada da fare è ancora lunga e perigliosa.

Xi Jinping
Questo per dire che gli accadimenti dal giorno dell’ingresso alla Casa Bianca, lo scorso 20 gennaio, sino ad oggi, sono studiati a tavolino, e sono parte di una strategia che mira in primis a riacquistare il debito che gli Usa hanno contratto negli anni nei confronti soprattutto della Cina, e per spuntare un prezzo conveniente c’è bisogno che il dollaro venga svalutato (Leggi il nostro articolo dell’8 gennaio). Trump sta agendo perché ciò avvenga: non ha di sicuro la certezza della riuscita dell’operazione, ma sta tentando. Ed è anche cosciente della seconda, vera, grande questione: ha preso atto che gli Usa non producono più. Da tempo. Ed è un male, perché una volta riacquistato il debito bisognerà produrre per evitare di contrarne altri, per questo sta tentando anche di far rientrare nell’Unione la produzione che politiche passate, iniziate dagli anni ’70, hanno pensato e deciso di delocalizzare in altri Paesi, soprattutto dell’Oriente: Trump si è accorto che la Cina man mano che il tempo passava ha sempre più avuto mano libera, tanto che se all’inizio la Cina era quella che “copiava tutto, ma nulla era originale tranne le palle di Natale” ora le cose sono cambiate, la Cina è quella che continua a produrre palle di Natale, ma anche, per esempio, sistemi di armi di grande livello, almeno pari a quelle americane ed è diventata il primo produttore mondiale di droni. Insomma se Trump anche inizia l’opera di reinsediamento produttivo e di recupero di produzioni che erano e sono delocalizzate fuori dagli Usa, deve fare i conti con il sistema produttivo che oggi non è più quello di una volta, fatto di catene di montaggio e operai: sono sistemi all’avanguardia, robottizzati, che hanno trasformato le tecnologie rendendole sempre più avanzate, tanto da rendere minima la presenza di braccia umane, quindi i benefici, sotto il punto di vista del rilancio occupazionale, sono risicati. Reagan mobilitò gli economisti quando sotto la sua presidenza si visse la prima grande crisi: pensarono di attenuare le ripercussioni più percepibili dalla gente riducendo l’imposta sul reddito, ma intanto la produzione continuava ad essere delocalizzata all’estero e nessuno ebbe la lungimiranza di prevedere gli effetti negativi che si registrano oggi. Negli anni 2000 la botta di grazia: gli Usa promuovono l’ingresso della Cina nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Bill Clinton
In realtà Bill Clinton, Presidente dell’epoca, non era convinto della giustezza di questa operazione, ma fu costretto a sostenerla spinto dalle imprese americane che volevano produrre e guadagnare di più spendendo di meno, solo che poi non è stato esercitato un controllo indispensabile per evitare che si usufruisse solo dei vantaggi del sistema, senza rendersi conto che ogni giorno che passava gli Usa diventavano sempre meno concorrenziali nei confronti della Cina e degli altri Paesi che ospitano insediamenti produttivi delocalizzati dagli Usa. La svolta nell’economia ipotizzata e che doveva registrarsi con la delocalizzazione ed esternalizzazione all’estero in effetti ha favorito il rafforzamento progressivo dei paesi ospitanti inizialmente più deboli e causato il corrispondente depotenziamento degli USA. E la Cina? E Xí Jìnpíng? E l’Italia e l’Europa? Ne parliamo domani.