Enfasi e spettacolarità caratterizzano in genere il cinema di guerra, anche se, proprio ispirandosi agli eventi del Primo conflitto mondiale, nascono alcuni capolavori che sul grande schermo danno slancio e vigore ai temi della dell’antimilitarismo e della non belligeranza. Tra i grandi interpreti di questi film spicca anche un lucano di origini stiglianesi.
di Giuseppe Colangelo
Fra i primi a portare sullo schermo la Grande Guerra è Charlie Chaplin con Charlot soldato (1918), opera in cui dirige se stesso nei panni di uno stralunato militare atterrito dall’esplodere delle bombe in una trincea sul fronte franco-tedesco. Si tratta di un film comico che dietro l’ilarità critica con forza la mostruosa logica dei conflitti bellici. I toni sono quelli tipici del geniale cineasta volti a rappresentare la paura e lo smarrimento di chi è destinato, suo malgrado, a finire in pasto all’assurda brutalità istigata dalla vanagloria di imperatori e generali. In questo caso l’esplicito bersaglio sono il Kaiser Guglielmo II, interpretato dal fratello Syd Chaplin, e il suo stato maggiore.
Se la guerra del ‘15 – ‘18 segna profondamente la storia del cinema internazionale, di fatto, è soprattutto la crudeltà del conflitto scatenato da Hitler a far crescere in pellicola il tema bellico, offrendo a registi e produttori, grazie anche alla dettagliata testimonianza di fotografi e cineoperatori al fronte, molteplici opportunità di analisi. Opportunità, però, che nella maggior parte dei casi per ragioni propagandistiche e spettacolari sono relegate in secondo piano. Di conseguenza, a parte alcuni titoli neorealisti ed europei e un certo cinema autoriale inclini a smascherare tragedie e aberrazioni, nasce e si sviluppa soprattutto in America una filmografia che privilegia il fine superiore della difesa della patria, tratteggiando una serie di figure connotate da un’indole eroica. Uomini che in varie aree geografiche compiono per cielo, terra e mare, ogni sorta di missione e che spesso pagano con la vita il loro coraggioso attaccamento alla bandiera. Tuttavia, a delineare il percorso in celluloide della Prima guerra mondiale concorrono pellicole che sviluppano il plot bellico da molte angolazioni. Si va dalle grandi battaglie aeree che animano Ali (1927) di William Augustus e Gli angeli dell’inferno (1930) di Howard Hughes. -Pregevole la ricostruzione delle peripezie che hanno caratterizzato la realizzazione quest’ultimo lungometraggio operata da Martin Scorsese nel biografico The Aviator (2004), dove Leonardo Di Caprio impersona il poliedrico e controverso miliardario Howard Hughes.-
A Carry on, Sergeant! (1928) diretto da Bruce Bairnsfather, con Hugh Buckler, Jimmy Savo, Nancy Ann Hargreaves e Louis Cardi. -Pietra miliare della cinematografia canadese di recente restaurata che celebra il contributo militare del Paese durante il primo conflitto mondiale in cui spicca la performance di Jimmy Savo, l’attore di origini stiglianesi in auge all’epoca del passaggio dal muto al sonoro e protagonista anche come ballerino, comico e cantante a Broadway. Il piccoletto rubicondo lucano, con lo sguardo vivace colmo di furbizia e un nome d’arte appiccicato addosso, definito dal geniale Charlie Chaplin:”… il più grande pantomimo del mondo”.- Fino ai recenti Quel rosso mattino di giugno – Attentato a Sarajevo (1975) di Veliko Bulajic, racconto di come si giunge al fatidico 28 giugno 1914 in cui Gravilo Princip assassina l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia innescando di fatto il conflitto, e Sjene/Shadows – The last confession of Gavrilo Princip (2014) di Milos Ljubomirovic. Ai quali si aggiungono All’ovest niente di nuovo (1930) di Lewis Milestone, Montagne in fiamme (1931) del regista, attore e alpinista altoatesino Luis Trenker e Addio alle armi (1932) di Frank Borzage, tratto dal romanzo di Ernest Hemingway e girato interamente in Friuli, in particolare a Venzone, e che ispira il remake di Charles Vidor del 1957. Filmografia che poi si arricchisce di una serie di opere notevoli e di alcuni capolavori come La grande illusione (1937) di Jean Renoir, Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick, La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, Uomini contro (1970) di Francesco Rosi, Il Barone Rosso (1971) di Roger Corman, Gallipoli – Gli anni spezzati (1981) di Peter Weir, La vita e niente altro (1989) e Capitan Conan (1996) di Bertrand Tavernier, La Frontiera (1996) di Franco Giraldi e Torneranno i prati (2914) di Ermanno Olmi.
Scandagliando, però, la significativa e diversa impostazione non solo ideologica di questi titoli, si evince un’emblematica chiave di lettura su un certo modo di fare e intendere il cinema. Così, per quanto concerne gli aspetti spettacolari e melodrammatici, al travolgente amore sbocciato sul fronte italiano tra un giovane ufficiale americano (Gary Cooper) e un’infermiera inglese (Helen Hayes) messo in scena da Borzage con grande disponibilità di mezzi, e all’assurdo massacro a cui vanno incontro degli ingenui ragazzi australiani in una trincea turca nella pellicola di Peter Weir, si contrappongono le disillusioni sull’etica e sul coraggio del film di Milestone e l’altrettanto maturo lavoro di Jean Renoir che vede protagonisti attori del calibro di Jean Gabin, Pierre Fresnay ed Erich von Stroheim. Il maestro transalpino racconta di due ufficiali francesi che prima della fuga da un campo di detenzione tedesco vengono trasferiti in una fortezza dove, uno dei due, decide di sacrificarsi per consentire ai suoi compagni di salvarsi. «…Un’opera» scrive François Truffaut, «costruita sull’idea che il mondo si divide orizzontalmente per affinità, e non verticalmente per barriere… un film nel quale si pratica una guerra ancora improntata sul fair-play, una guerra senza bombe atomiche e senza torture.»
Ma ad aprire il varco in direzione di un più marcato spirito antimilitarista contribuiscono l’indimenticabile affresco condito di furbizia e antiretorica di Mario Monicelli, con gli strepitisi Alberto Sordi e Vittorio Gassman, l’adattamento del romanzo omonimo di Emilio Lussu diretto da Francesco Rosi, con il grande Gian Maria Volonté nei panni di un giovane ufficiale dell’Esercito italiano di stanza sull’altopiano di Asiago, e le due efficaci opere di Bertrand Tavernier.
Infine, un discorso a parte merita Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick, in cui eroismo e slanci ideali sono banditi e la disperazione dei soldati è vista con orrore. Il plot ruota intorno alla folle decisione di due generali francesi che ordinano un assurdo attacco suicida. Ma, dopo l’inutile carneficina, per negare la loro disastrosa decisione, accusano i soldati di vigliaccheria, stabilendo di fucilarne tre per punizione. A nulla servono i tentativi di un colonnello (Kirk Douglas) per salvare i condannati, perché la sentenza verrà comunque eseguita. «… Un capolavoro del cinema antimilitarista», scrive Morando Morandini, «il solo film hollywoodiano che analizzi la guerra e l’apparato militare in termini di classe. Racconto di suspense ideologica… in cui il furore della denuncia è quasi interamente assorbito dalla forza dello stile. Conta il rapporto tra il settecentesco castello dove gli ufficiali dello Stato Maggiore predispongono sulla carta (sulla scacchiera) le mosse dell’azione, rispondendo alle proprie ambizioni, e il caos del “formicaio” in trincea dove l’azione veramente si svolge.» Toccare con tanta chiarezza certi tasti è sempre molto rischioso. Infatti, al pari di quanto patito da All’ovest niente di nuovo (1930) di Milestone, messo al bando per molti anni in Germania e in Italia, anche Kubrick deve aspettare il 1975 per vedere cadere in Francia il manto disteso dalla censura sul suo capolavoro.