Era cugino del professor Angelo Lucano Larotonda, che ha saputo solo dopo qualche mese della sua morte, e lo racconta oggi. Così.
di Angelo Lucano Larotonda
Tito Capobianco era mio cugino. Soltanto ora ho saputo della sua morte per malattia terminale. Il mio cuore si è rattristato perché gli volevo bene. Molto.
Avevamo interessi comuni per la musica e per il teatro d’opera. Ma Egli li viveva dall’interno: come regista teatrale e come direttore generale e regista dei teatri d’0pera, 7 anni a San Diego (California) e 17 a Pittsburgh (Pennsylvania). Mi telefonò felice come un bambino per dirmi della lettera autografa inviatagli dal Presidente Clinton a lode e apprezzamento del suo lavoro.
Era amico di Pavarotti che, per diversi anni, gli diede incarichi di fiducia nella scelta di giovani cantanti lirici. Ebbe qualche frizione con Muti, che amava interferire nel lavoro registico. E diceva di tanti altri personaggi dello spettacolo con le loro bizze di “prime donne”. Ne diresse parecchi, e famosi, in vari teatri americani, tra cui al Lincon Center, al Metropolitan.
Parlavamo divertiti di queste cose – a volte per telefono, altre volte a casa mia davanti ad una fiaschetta di aglianico bevuto col ‘cannitto’, (a garganella con la cannuccia) e un piatto di pasta e lenticchie alla paesana. Ne andava pazzo.
Sorridevo al suo slang, un inglese non del tutto libero dalla cadenza spagnola, e ancor di più quando pronunciava parole del dialetto rionerese con la giusta intonazione appresa in famiglia, emigrata in Argentina. Era rimasto lucano fin dentro le midolla, impronta impressagli da sua madre, mia zia, fin da quando lo aveva messo al mondo a La Plata nel 1931. Ma a lei disobbedì perché lei lo voleva avvocato, e lui voleva fare l’”artista”. Così se ne andò in USA con la sua giovane moglie Gigì, dolcissima, già ballerina al Teatro Colon della capitale argentina.
L’ultima volta che venne, passeggiammo insieme per via Pretoria. .. Mi devo fermare…….