Di Simona Bonito
Il foyer del teatro Stabile è ormai vuoto. Sono entrati quasi tutti. Mi accoglie un Dino Becagli particolarmente emozionato che con pochissime parole mi dice: “Benvenuta, grazie. Fra tre minuti iniziamo.” Questa sensazione di perfezione, di voler cominciare in orario, di non voler far attendere nessuno fa presagire che sarà uno spettacolo bellissimo. Curato nei dettagli.
Buio. Il sipario si apre su uno scenario da cartolina illustrata anni ’60. Semplice, essenziale come deve essere quando l’attenzione va sulle parole che poi arrivano dritte al cuore.
Sono entrata prevenuta. Lo confesso. Ho presentato moltissime volte con Giuseppe Lupo il suo romanzo “Gli anni del nostro incanto” edito da Marsilio, vincitore del Premio Viareggio e ho avuto la fortuna di leggerlo quando ancora non era nelle librerie. Dal primo momento l’ho considerato uno dei miei libri del cuore, vuoi per i temi trattati, vuoi per la profonda amicizia che mi lega a Giuseppe, vuoi per quanta anima sia racchiusa in quel libro e avevo paura che qualcuno potesse svilire la magia racchiusa in ciascuna pagina. Ciò che mi dava tranquillità era sapere il nome del regista, Dino Becagli, stimato e attento professionista, lucano. Una garanzia.
Ecco quindi la prima motivazione che mi ha spinto a vederlo. Soddisfare la mia curiosità e verificare di persona, quanto l’adattamento teatrale potesse somigliare alla versione cartacea e rimanere fedele al romanzo, uno dei più belli degli ultimi tempi.
Una voce sottile, delicata pronuncia le prime parole del romanzo, quelle che descrivono la foto in copertina: “I fiori nel portapacchi papà li aveva regalati a mamma un mattino di aprile, per l’anniversario delle nozze. Io sono quella che mia madre stringe al petto. Ero nata quasi da un anno, ridevo come un angelo al vento della Vespa e l’aria mi entrava in bocca”.
Vittoria per tutto il tempo è riuscita e tenere uniti i personaggi, attraverso un filo immaginario fatto di ricordi ed emozioni, è riuscita con la stessa delicatezza a lasciare spazio a tutti e rendere protagonista la parte più intima di ciascuno di loro facendoli dialogare senza mai sminuirli.
Mi verrebbe da dire: si vede che l’hanno letto e non solo, l’hanno amato, fatto proprio, hanno fatto sedimentare i personaggi e le storie, insomma ogni attore ha “abitato” in quel libro per molti mesi prima di metterlo in scena.
In scena non c’era solo Vittoria. A farle compagnia, uno a uno tutti i pezzi della sua famiglia travolta da cambiamenti, pronti a mostrarsi e raccontare le loro emozioni, alternando sentimenti di nostalgia dei tempi in cui i genitori erano giovani, ai balli e alle serate sui navigli accompagnati dalle parole di Mina: “É l’uomo per me, è sicuro di sé, da uomo so già, i progetti che ha, i sogni che fa…” che sembrano essere state scritte apposta per descrivere l’atomico Louis, padre di Vittoria, l’uomo pieno di speranza partito dal suo paesino del sud, a cercare fortuna nella Milano “sbarluscenta” desideroso di dare il meglio di se stesso per sé e per la sua famiglia, incapace però, di comunicare con suo figlio affetto dal male della silenziosità “un disturbo che nessuna medicina riusciva a vincere”. Ed ecco che entra in scena quello che nel romanzo è un personaggio silenzioso, Bartolomeo, quello, a mio avviso, più difficile da impersonare, pieno di sfaccettature e privo di dialoghi da fare propri. L’Indiano nel libro non parla, agisce nella solitudine che l’attore (bravissimo) è riuscito a portare alla luce seppure nel buio delle sue contraddizioni.
E poi il tema del doppio presente nel romanzo riportato in scena dalla presenza di Regina nella versione: quella della “dimenticanza”priva di ricordi cancellati come le foto che non possedeva e che non potevano raccontare il suo passato e un’altra Regina, giovane, indipendente e lavoratrice che viene fuori di tanto in tanto quasi a voler affermare con forza che per quanto si possa tentare di cancellare il passato, esso ritorna prepotente a ricordarci chi siamo.
E intanto, lo sfondo di Milano del miracolo e del boom economico e nello stesso tempo del terrore è sempre lì dietro agli attori a fare da cornice alla storia. I contributi video alle loro spalle sono stati un prezioso aiuto per accarezzare il ricordo o per i più giovani per consentirgli di immaginare cosa siano stati gli anni della “Gran Milan”. Un’attenzione ai dettagli dalla prima all’ultima parola, legati alla grande Milano, ai protagonisti, ai richiami storici, ai nomi delle vie, ai quartieri e persino alle canzoni di quegli anni che sono certa, qualcuno ha canticchiato sottovoce.
Una narrazione che è riuscita a unire il tema della memoria che continua nelle vite di chi resta a quello della riflessione per chi quegli anni non li ha vissuti.
Dunque, vale davvero la pena vederlo per ritrovare nell’adattamento teatrale di Becagli e nella bravura degli attori (Daniela Ditaranto, Giovanna Vignola, Giuseppe Pergola, Giovanni Pelliccia, Giusi Locuratolo e rocco Laurita) capaci di far rivivere i personaggi, quell’atmosfera che tanto ha contribuito al successo del libro ormai alla sua quarta ristampa.
Ultima cosa, ma non ultima di importanza; il pregio più apprezzabile del lavoro di Becagli è stata la scelta coraggiosa di investire su un progetto cosi ambizioso, che mi auguro, come ha detto lo stesso Lupo, posa trovare il consenso non solo in un pubblico attento, ma anche e soprattutto di chi possa consentire a questi giovani talenti e anche a quelli meno giovani di raccontare che in Basilicata la cultura arricchisce e ci rende migliori.
Una nota emozionale: (rubando le parole all’autore) al temine dello spettacolo Giuseppe Lupo era così commosso e orgoglioso dei suoi conterranei che a momenti “si metteva a volare! Glio appuntamenti sono domani, 3 gennaio, a Melfi al teatro Ruggiero, mentre a Potenza si replica il 5 e il 6 gennaio al Teatro Stabile