Aria d’Europa per due vernacoli, due stili che” si uniscono e i personaggi mutano in esseri umani”. L’attore di Brienza parla dello spettacolo, della sua drammaturgia e della “trilogia dell’odio” che sta per completare: dopo “Cesso” e “Affogo”, nel 2024 arriverà “Rigetto”.
di Francesco Altavista
E’ un privilegio assistere alla crescita di un grande artista, con il quale magari si è condiviso tanto tempo: la maggior parte del tempo che conta. Ho quindi l’obbligo di non ingannare il lettore, con l’uso del “lei” e cioè con un posticcio distacco “professionale”. Siamo in quella che è a tutti gli effetti una “factory” di arte. Non è quella del 1962 e non siamo certo a New York, ma a Brienza. Anche lo studio di Dino Lopardo è una rappresentazione plastica della sua ricerca di Bellezza artistica, della forma elevata a poesia, della sua ossessione estetica, del suo manierismo, della sua curiosità e della sua follia.
Tutte caratteristiche, ovviamente, del suo teatro. In questo studio di artisti, poeti, maldetti e pensatori urbani (tra questi tante bellissime donne) ne sono passati e ne passano tanti, qui ci si confronta spesso tra i sogni e le ambizioni; evidentemente però come in tutte le “factory” ci sono anche i prodotti di scarto, quelli usciti sbagliati, ombre sorelle dei cani randagi. Dino Lopardo però quelli come noi, gli scarti, li racconta senza nascondersi, perché lui è ben consapevole di essere diverso, un elevato, un costruttore di futuro, un maestro e un poeta che comprende il disagio, la marginalità, la sconfitta, la frustrazione, comprende i prigionieri del passato e dei ricordi e che riesce a respirare e interpretare la realtà più oscura e olezzante. Lui odierà queste parole, come odia le filosofie che troppo discostano l’artista dalla sua arte. Allora con il rischio di farlo arrabbiare di più, scrivo che Dino Lopardo non ha pari nella storia del teatro, per l’approccio che lo contraddistingue, per la sua arte e la sua poetica, cose che cercheremo in questa intervista di raccontare.
Il manierismo e la poesia elevante alla scena, gusto per lo sporco dell’umano, attenzione alla Bellezza, Eduardo, Pirandello, Cechov, Ibsen, Eleonora Duse, Shakespeare, Diderot, Jouvet, Ulderico Pesce, l’amore per il pubblico, il rhum nazareno, il pessimo caffè della sua factory e anche dell’Università di Basilicata, le birre al “ Time Bridge” , il tempo speso a consegnare pizze, il teatro amatoriale, i sacrifici solitari nelle grandi città, le lacrime, lo stupore e poi Alfredo Tortorelli che arriva alla factory verso la fine e risponde anche lui all’ultima domanda. Alfredo è un altro compagno di avventura, di studi e di vecchie ambizioni che lui ha avuto la forza e le capacità di coltivare e di elevare; è un cantautore, ma anche attore protagonista nello spettacolo “Ion” insieme a Lorenzo Garufo nella messa in scena attuale e prima con Andrea Tosi. Questi sono tutti elementi dell’intervista, alcuni però sono invisibili incastonati nella nostra testa e non scritti, altri argomentati, alcuni appena accennati, altri latitanti e altri ancora dimenticati.
Dino, siamo a poche ore dalla messa in scena dello spettacolo “Ion” a Milano (Campo Teatrale dal 14 al 19 febbraio). Cosa significa portare un tuo spettacolo completo in una città “europea” di grande teatro?
«Certamente è una scommessa, ma anche un desiderio che avevo in testa da diversi anni. C’è la curiosità di portare un lavoro di questo genere in una piazza importante che si discosta anche da alcune dinamiche sociali, antropologiche e di linguaggio. Abbiamo fatto un primo step la scorsa estate presentando venti minuti e la risposta del pubblico è stata sorprendente. Non mi aspettavo una reazione del genere, specie nella comprensione. E’ un lavoro sicuramente complesso anche dal punto di vista del linguaggio…»
E’ un testo in vernacolo, richiede una certa attenzione specie per un pubblico del nord…
«Ci sono due stili che improvvisamente si uniscono. Un vernacolo più stretto cucito addosso a Paolo e un altro più italianizzato per quanto riguarda Giovanni. Un appunto: comincio ad odiare la parola “personaggi”, preferisco definirli “esseri umani”»
Non sono personaggi scritti nella drammaturgia, ma esseri vivi?
«Dal punto di vista della creazione, il lavoro sull’attore non è basato su un aspetto principalmente tecnico e stilistico. C’è un apporto personale dell’attore che dà a me totalmente e io poi restituisco, se sono in grado di farlo. Non è un testo scritto a tavolino, come la prassi vuole specie in contesti accademici. E’ un processo più lungo però è materia viva e umana che si fa carne, mi permetto quindi di dire che il termine “personaggio” è improprio».
In questa creazione del “non personaggio” – non è così spontanea ma vedremo in seguito – come si crea il dramma?
«C’è una ricerca di ascolto profonda. Vado in strada, vado nei locali, dialogo con la gente per raccontare il presente senza tralasciare le domande del passato. Quell’essere umano cosa vive tra le proprie mura domestiche? Cosa vive sul posto di lavoro? Cosa vive nei suoi rapporti familiari? Tutto questo materiale viene filtrato e sottoposto agli attori. Si sollevano sempre più domande, alle quali nessuno risponde. Gli attori daranno una loro risposta motivata per dare una forma, il compito però, è creare altre domande e magari entrare in crisi sempre di più. Noi siamo perennemente in crisi, è un po’ questo il nostro lavoro».
Insisto: in “ Sei personaggi in cerca d’autore” ad un certo punto l’autore ferma i racconti dei personaggi perché non interessa il dramma di ognuno di loro, ma solo il dramma che l’autore vuole raccontare. Ecco, tu come distingui ciò che vuoi raccontare dal dramma che inevitabilmente sia gli attori che i “non personaggi” portano con sé?
«Un punto di partenza c’è sicuramente e anche un punto di arrivo. Il percorso che c’è tra i due punti è un’operazione chirurgica. Come il chirurgo opera sulla carne io devo operare sull’anima. Ci vuole molto ascolto, molto tatto, tutto va filtrato e tutto portato all’estremo a livello di emozioni: che cosa si può provare in un determinato momento? Ricollegando tutto a favore della storia, non faccio psicoanalisi e non mi interessa. Mi sento di toccare con mano le emozioni degli attori, cercando ogni volta di superare il limite; se ciò mi viene concesso e permesso, non tutti si aprono. Non è un caso che ognuno di loro porti un po’ di vissuto, non a caso ho lavorato anche con non attori. C’è quindi anche una destrutturazione accademica che mi ha dato possibilità di lavorare su un terreno vergine senza filtri».
Non accetterai mai questa definizione, ma sei stato maestro per i tuoi attori che anche se non accademici, hanno studiato i tuoi manierismi poetici e il tuo modo di stare sul palco e come tu volevi che loro stessero sul palco. Non è quindi così spontanea la creazione dei tuoi “non personaggi”. So che non ti piace, ma permettimi un po’ di filosofia: per dimostrare il suo paradosso Diderot, racconta di un incidente in scena: cade l’orecchino ad un’attrice e l’altro attore in scena, uscendo freddamente e razionalmente dal personaggio sposta con un piede l’oggetto sotto un arredo di scena. Per molti altri attori non è possibile uscire dal personaggio, agire così freddamente, tra questi Jouvet perché sarebbe falso. I tuoi “non personaggi” come rispondono al paradosso di Diderot
«Non mi sento un maestro, anche questa è una parola che odio. Oggi è tra l’altro molto raro trovarli. Io non ho creato attori, ho guidato degli esseri umani con tanta voglia di raccontare qualcosa. Per quanto riguarda Diderot: non si tratta di essere disciplinati, ma abbiamo imparato che la disciplina serve anche per affrontare gli incidenti scenici. Se fosse capitato a noi in scena, l’attore avrebbe lavorato su quell’imprevisto, con quell’elemento di imperfezione portandolo a sé e dandogli una motivazione. A me interessa molto l’imperfezione come punto di partenza, certo non di arrivo. Una volta entrati in questa cosa viva, non si esce più».
In questa dinamicità drammaturgica tu non solo ne fai parte come autore e come regista, ma segui le date dei tuoi spettacoli, sei presente e non solo, ovviamente, quando sei in scena come attore. Non è una cosa che fanno molti registi, la maggior parte si limita ad assistere alla Prima. Tu curi spesso le luci personalmente. Perché?
«Mi interessa l’evoluzione. Non è un confezionare il prodotto e poi ognuno se la sbriga da sé. Siamo andati in scena per “Gommalacca teatro”, proprio con “Ion” e molti erano sorpresi che non facessi le memorie per le luci (movimento di luci prestabilito e computerizzato), ma andassi in manuale. Io seguo gli attori. Se fosse tutto preconfezionato, non potrei utilizzare gli elemento che in quell’attimo in scena può tornare utile – la famosa imperfezione di cui parlavamo prima- non riuscirei a farlo diventare un elemento drammaturgico, un arricchimento. Sono in scena con gli attori e respiro con loro. La stessa cosa vale per le musiche e i volumi. Deve essere tutto vivo, non è un prodotto al consumo. Per questo i miei spettacoli hanno avuto un’evoluzione anche tecnica»
Parliamo ora della trilogia che stai scrivendo, ma prima partendo da “Trapanaterra” il tuo primo lavoro, fino agli ultimi appunto la trilogia e Ion, ma anche il tuo primo cortometraggio, ti chiedo : perché questa ossessione per la famiglia?
«Credo sia stato un insegnamento di un grande maestro, analizzando e studiando le sue opere, Eduardo. Lui ne ha fatto sempre un elemento principale per raccontare altro. Credo che l’essere umano si formi nella famiglia, ciò che accade tra le mura domestiche. La famiglia è un punto di partenza e di ritorno, si ritorna anche a morire tra le braccia familiari».
A me sembra però che a differenza di Eduardo, tu rispetti meno i legami famigliari e come se volessi meno bene ai tuoi “non personaggi”? E’ odio?
«Non credo di odiarli, ma mi affeziono talmente tanto da portare all’estremo ogni singola azione in scena. Ho tanto rispetto sia per chi predica bene, ma soprattutto per chi predica male. Più sono squallidi e più li amo».
In “Trapanaterra” ci sono due fratelli proprio come in “Ion”. Nel tuo primo lavoro uno dei due va via e poi ritorna, nell’altro sono insieme, vivono insieme ma vivono come una partenza incompleta, un voler andare via che non si concretizza…
«C’è in comune un grande conflitto, d’altra parte se non ci fosse, non accadrebbe l’atto. C’è un conflitto di silenzi in entrambi. Questo è un punto in comune tra i due spettacoli, insieme al contatto fisico. In “Trapanaterra” si richiede un abbraccio che avviene in un preciso momento, anche in “Ion” avviene ma è un abbraccio non autentico che serve per camuffare tutto ciò che c’è di marcio. E’ qui c’è un altro elemento in comune, l’ipocrisia come d’altra parte in un altro spettacolo “Attesa”. Mi interessa molto questo aspetto, la grande ipocrisia dell’essere umano»
Come si comporta la società attorno ai tuoi “non personaggi”, cioè la parte non mostrata in scena, ma lasciata intendere dalla drammaturgia?
«E’ una società che sta implodendo. I rapporti stanno venendo meno. Scrivo di questa disintegrazione di una società che si sta autodistruggendo. Cerco di portarla in scena in chiave poetica, più la tensione si fa alta e più arriva lo squallore e più ho il dovere di tirarne fuori poesia».
Questa intervista sta diventando eccessivamente lunga, parliamo della tua trilogia?
«La trilogia dell’odio, ho sentito il bisogno di voler lavorare su questo aspetto. Tutti e tre i capitoli si muovono tra una dimensione privata, tra le mura domestiche e una pubblica. Il primo capitolo è “Cesso”, il tema principale è la ludopatia; secondo capitolo “Affogo” che ha debuttato due mesi fa, si racconta il disagio e il bullismo. Il terzo capitolo che sto scrivendo si intitola “Rigetto” , vuole raccontare l’alimentazione, l’anoressia e bulimia. Penso debutterà nel 2024».
Abbiamo parlato di drammi, ma i tuoi spettacoli sono molto divertenti, si ride anche e ci si meraviglia, ci si stupisce anche grazie alle tue elaborate scenografie dinamiche (in “Affogo” compare perfino una piscina ) e poi c’è la violenza mostrata in scena. Il tuo è un umorismo pulp che vuole anche stupire?
«Gioco con il disagio, come farebbe un bambino, specie nella trilogia. I bambini non si rendono conto di recare danno. Lo fanno attraverso il gioco: prendere un gatto per la coda e sbatterlo per le scale è violenza, è orribile, è macabro; ma sta giocando. Voglio portare in scena questo, mostrando allo spettatore un gioco macabro, partendo da un atto estremo. In “Ion” ad un certo punto o due fratelli stanno giocando con una pezza, uno dei due la lancia addosso al fratello. Si rincorrono, ad un certo punto i colpi si fanno sempre più forti: non sono più bambini, diventano adulti. Per quanto riguarda le scenografie, ci si meraviglia in modo molto artigianale: in “Affogo” c’è un oggetto componibile che ad un certo punto si trasforma in base alle esigenze della scena. Anche lì, c’è un paperotto parlante, un gioco che poi si trasforma in un pollo che viene trucidato, ricordando ciò che faceva la zia».
Realtà e dramma non sono la stessa cosa, non sono percepite allo stesso modo dal pubblico. Eduardo scrive ne “L’arte della Commedia” di accorgersi del rumore diverso dei suoi passi tra la strada e le tavole del palcoscenico, pur facendo la stessa cosa: camminare. In questo ha un ruolo il pubblico. A chi si rivolge la tua poetica, il tuo teatro?
«Mi sento di dire che mi rivolgo a qualsiasi tipo di pubblico. Abbiamo fatto un esperimento, mostrando “Ion” per gli studenti. Sono entrati fischiando e quando è cominciato lo spettacolo si sono ammutoliti, facendo silenzio fino alla fine. Credo che i miei siano lavori molto appetibili per i più giovani, si ritrovano negli esseri umani in scena».
Concludiamo. Per te cosa è la Bellezza?
«La Bellezza è lo stupore di un bambino che rivede gli occhi della madre dopo anni, senza averla mai conosciuta»
Alfredo, visto che sei entrato al momento giusto, per te cosa è la Bellezza?
«La Bellezza è ringraziare internamente- a sé stessi, non agli altri – per quello che ci viene concesso in termini sia di gioia che di dolore».