“Quando un essere umano parte per cercare fortuna è come attendere un pasto dopo un lungo digiuno; poi, quando lo trova, inizia a mangiare e gli rimane in gola, nel cannarozzo, se poi pensa a quello che è stato costretto a lasciare”.
di Carlo Calza
Il progetto “Trapanaterra” è nato da un’idea di Dino Lopardo presentato come compito di composizione scenica durante il corso di Drammaturgia dell’Attore tenuto da Rosa Masciopinto per l’AIAD (Accademia di Arte Drammatica del Teatro Quirino di Roma).
L’opera è stata poi sviluppata come tesi di laurea in drammaturgia e sceneggiatura presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico.
Ulteriori riconoscimenti e sostegni hanno poi fatto in modo che questo diventasse un vero e proprio atto unico, uno spettacolo che si fa portavoce di sentimenti e situazioni condivise in Basilicata, una Terra in cui ci si ritrova ormai sistematicamente a dover scegliere fra restare o partire, ben consci che qualunque ipotesi porterà a un inevitabile sacrificio.
Dino Lopardo e Mario Russo sono Rit e Res, due fratelli si ricongiungono in un paese lucano. Uno dei due, “Rit” è appunto ritornato nella sua Terra dopo essere emigrato, l’altro “Res” era restato in Lucania per lavorare in un impianto petrolifero.
“Trapanaterra è un viaggio di rimpatrio, il resoconto di una famiglia del Sud distrutta da un destino Ineluttabile”, così dichiara Dino Lopardo e continua – “Lavoro, corruzione, potere, tradizione, familismo amorale, abbandono e identità culturale sono gli elementi che fanno continuamente staffetta nel testo.”
Questo lavoro nasce da un suo profondo senso di malessere che nasce dall’essere costretti a partire per cercare
qualcosa che nella propria terra d’origine non si è riusciti a trovare.
“Quando un essere umano parte per cercare fortuna è come attendere un pasto dopo un lungo digiuno; poi, quando lo trova, inizia a mangiare e gli rimane in gola, nel cannarozzo, se poi pensa a quello che è stato costretto a lasciare”.
Nell’ossimoro costante fra fuga e restanza si trova tutto il senso di “Trapanaterra”, un sacrificio ineluttabile, un fardello da portare sulla schiena in ogni caso, una vera condanna per chi nasce in luoghi universalmente noti per essere sfortunati, infelici, poco incentivanti.
L’esperienza di Dino Lopardo, lucano, lo ha portato a narrare di fatti a lui vicini, ma il discorso potrebbe ampliarsi all’infinito.
In “Trapanaterra” troviamo tutta la storia contadina lucana, il passaggio attraverso una industrializzazione del settore petrolifero, rivelatori poi essere un vero mostro. Un mostro che ti fa mangiare e ti uccide, ti offre lavoro e ti lascia lentamente ammalare.
Ecco che ritorna la scelta fra due sacrifici, diversi fra loro ma allo stesso modo pesanti, uno da vivere lontano da casa, l’altro da affrontare nella propria terra, che comunque non è più la stessa di un tempo.
Lo spettacolo è recitato in dialetto, ma a fare da contraltare a quello che è un contatto con la nostra tradizione c’è una scenografia volutamente ingombrante. Una gabbia di tubi avvolge Res, il fratello rimasto in Basilicata a lavorare per l’industria petrolifera. La gabbia li separa e produce i suoni che accompagnano la drammaturgia.
Al momento dell’incontro fra i due fratelli Rit chiede un semplice abbraccio, da qui inizia un dialogo attraverso il serio tema dell’emigrazione in rapporto alla “restanza”.
All’ideazione dello spettacolo il merito di aver conferito un tono grottesco ai dialoghi e alle situazioni proposte, necessità avvertita durante una lunga gestazione fatta di prove e improvvisazioni.
La rappresentazione è stata proposta in rassegne in tutta Italia, ha partecipato al Festical città delle 100 scale di Potenza del 2017 e alla rassegna “Torno a Casa” del 2018 a Matera.