di Giuseppe Colangelo
Dalla curva a gomito nascosta dietro l’abitazione d’ Cardon’ giungono fievoli le vivaci note della Marcetta Popolare di Ennio Morricone. Il paese è annichilito dal pomeriggio rovente di questo 13 agosto, che non vuole saperne di dare un calcio alla palla di fuoco per mandarla anzitempo dietro le cime della foresta Colonna. Esausti, al pari dei cani acquattati sotto i veicoli parcheggiati alla chi se ne frega, i battagli del convento di Sant’Antonio faticano a martellare i quarti d’ora. Tutta Stigliano langue in un bagno di sudore. Nell’aria immobile, vischiosa, aggirata la casa, un’Apecar 50 sbuca arrancando al ritmo della musica verso piazza Garibaldi, sotto gli occhi impigriti di alcuni piccioni gruganti all’ombra tagliente dei cornicioni.
«Chissà perché… c’è sempre qualcuno pronto a rompere le palle!» farfuglia Totonno con i baffi perlati di gocce salmastre. «In giornate come queste, pure le serpi cercano riparo. Solo ‘sti fessacchiotti girano una continuazione in macchina e motorino. Speriamo gli spuntino delle emorroidi grosse come ciliegie».
«E finiscila Totò! Lasciami riposare…» lo rimbrotta la moglie dalla camera da letto.
«Teresì, tu non sai dire altro… Piuttosto, perché non mi chiedi come mai dopo pranzo ho dovuto buttar giù due bicchieri di Amaro Lucano?».
«Cosa vuoi dire, che non hai gradito la lasagna al forno con polpette e salame piccante che mi avevi comandato? Sbaglio, o forse nel tuo piatto non è rimasto proprio niente?».
La musichetta si fa sempre più nitida. Il tre ruote, superata piazza Zanardelli, prosegue tra due fila di edifici sopraelevati, rimandando un’eco senz’anima: sorda come il ventre di una giara dal collo stretto o secca come il picchiettare degli zoccoli dei muli in piena notte? Questo cerca di stabilire Ciccio, distratto dall’avanzare dello strano motociclo. Seduto proprio di fronte, su una panchina all’ombra di un platano e forte degli studi da geometra, spesso è portato a osservare le opere degli altri nella speranza di riuscire, prima o poi, a costruirne una tutta sua. Appunto è assorto nel confronto tra l’architettura di palazzo Salomone, che domina da oltre un secolo piazza Garibaldi, e l’ammasso delle più recenti costruzioni che si arrampicano sgraziate una sopra l’altra. Il ciclomotore continua ad avvicinarsi. A questo punto, sistemandosi la giacca buttata sulle spalle, Ciccio volge l’attenzione sul motocarro a casetta, con tanto di tegole e comignolo, dipinta con i toni del cielo. Lentamente, il mezzo accosta lì vicino, s’interrompe la musica e una doppia accelerata spegne il motore. Il silenzio torna a regnare sovrano. Anche il calabrone che di tanto in tanto ronzando aveva disturbato Ciccio, sembra essersi dileguato. Tuttavia, per precauzione, lui rotea sospetto lo sguardo per accertarsi che l’insetto non sia prossimo a lanciarsi come uno Stuka sulla sua narice pronunciata.
«Mah, speriamo ka na ven’ ancor’ a romb’ l’cuazz’» bofonchia tra sé, mentre il conducente dell’Apecar apre lo sportello tamponandosi con un fazzoletto bianco il sudore dal collo e dalla fronte. «E koss’ da donn’ ven’…»
A distoglierlo dalle sue considerazioni è la vocina del forestiero, affaticato dal lungo serpentone di curve cha ha dovuto superare per giungere a Stigliano.
«Sentite. Ho un’arsura che non ce la faccio più. Nel bosco di Montepiano mi sono dimenticato di fermarmi a bere alla fontana e adesso non so dove andare, visto che tutti i bar sono chiusi…».
«Eh, eh, eh. Caro signore» risponde Ciccio, «siete …».
«Lasciamo perdere il signore. Mi chiamo Antonio… Antonio La Cava».
«Piacere. Io sono Francesco Paolo, tutti però mi conoscono come Ciccio. Allora, vi stavo chiedendo come mai siete finito in questo paesone di lazzaroni… Da dove venite?».
«È da stamattina presto che sono in giro. Con il mio Bibliomotocarro sono passato da Garaguso, Oliveto Lucano e San Mauro Forte. Poi visto il caldo, invece di tornare sulla Basentana per rientrare a casa a Ferrandina, mi sono detto che forse era meglio passare dal bosco per viaggiare all’ombra. Purtroppo però, dal bivio di Cirigliano fino a qui non c’è più un albero neanche a pagarlo e mi sono arrostito nell’abitacolo. Ma non ci sono fontane in paese?».
«Una volta eravamo pieni di fontanili. Ormai hanno chiuso pure quelli. Se proprio non ce la fate più, vi posso offrire l’acqua di casa mia».
«Grazie, ma non voglio disturbare».
«Quale disturbo… Lo dice anche il Vangelo di dare da bere agli assetati…».
«Beh, se lo dice il Vangelo allora posso approfittare. Comunque non pensavo che a questa quota il sole potesse sciogliere l’asfalto…».
«Eh, sì. Come potete vedere qui non ci facciamo mancare nulla. Caldo, freddo, neve e chiacchiere quante ne volete. Ma fatemi capire, perché con sto’ caldo vi siete messo a girare per questi paesi dimenticati dal Signore?».
«Per regalare libri ai bambini».
«Regalare libri ai bambini??? Ma se dalle nostre parti si pensa solo a mangià».
«Appunto io dispenso cibo per la mente».
«Ah, Ah, Ah. Questa mi piace. Però vi devo dire la verità. Nel cominciare a sentire la musichetta e il rumore del motore del vostro mezzo ho pensato si trattasse del solito ambulante che viene a vendere pentole e scope a buon mercato. Quando poi vi siete fermato qui davanti ho creduto che foste uno di quei migranti clandestini, sapete di quelli che adesso sbarcano a frotte in Italia, che si era costruito un’abitazione mobile come quella di ‘Totò cerca casa’ o come se ne vedono in America».
«Ah, Ah, Ah. Questa della casetta alla Totò non me l’aveva detto ancora nessuno».
«Posso vedere come è fatta dentro?».
«Certo che sì. Accomodatevi pure, anche se oggi l’interno sembra un altoforno dell’Ilva».
Sistemandosi la giacca sulle spalle, Ciccio si avvia con passo lento verso il motocarro, gettando uno sguardo sottecchi alle case circostanti per controllare se c’è qualche spione acquattato dietro le tende dei balconi. “Guarda, guarda…” farfuglia tra sé mentre, appena aperto lo sportello posteriore, l’onda di calore lo investe in piena faccia umidendogli la fronte. «I tre porcellini, Kim, Zanna Bianca, Tarta Rughina cerca casa, Cuore, Peppa Pig, L’ultimo dei Mohicani, Io non ho paura, Geronimo Stilton… mai sentito. Somiglia un po’ a Topo Gigio. Cristo si è fermato a Eboli, Se questo è un uomo, La Gabbianella e il gatto che le insegnò a volare… Ha… Ha… Ha… Ha… Harry Potter…»
«Che ne dite, devo essere davvero pazzo?» chiede ironico Antonio La Cava.
«Non credo. No, non credo proprio» risponde Ciccio asciugandosi il sudore con il dorso della mano sinistra, mentre con l’altra stringe il reverse della giacca per non farla cadere a terra. «E poi di pazzi in giro ne basta uno e avanza, che sarei io».
«Ah, ah, Ah. Ma sapete che siete proprio un bella sagoma. Io arrivo disperato dalla sete, vi chiedo da bere e invece mi ritrovo più assetato e sudato di prima a chiacchierare sotto questo sole saraceno».
«E che ci volete fare, siamo gente del Sud. Una parola tira l’altra e così passa la giornata…».
Dopo una brusca e fastidiosa frenata, dei ragazzi a bordo di una Panda con i finestrini aperti e lo stereo a tutto volume salutano Ciccio con ampi gesti delle mani.
«Ma dove andate k’ sto’ cuaud’?» risponde lui.
«Stiamo partendo».
«Ma che partite a fa’, se poi dovete tornare».
«Sì, siete proprio una sagoma» ripete La Cava divertito. «Mi sa che qualche volta vi dovrò portare con me. Sono certo che attirereste molta gente intorno al bibliomotocarro».
«Ma a proposito, avete almeno mangiato?» ribatte Ciccio cambiando discorso.
«Quando faccio questi viaggetti di solito mangio una volta tornato a casa. Durante il tragitto mi arrangio con due fichi secchi e qualche mandorla».
«Beh, visto che ancora non siete morto per la sete, perché non mi raccontate come funziona il vostro lavoro?».
«È molto semplice. Stamattina, per esempio, sono salito a Oliveto Lucano annunciandomi come solito con un’allegra marcetta musicale. In piazzetta si sono radunati alcuni ragazzini, delle donne e un paio di vecchietti. Dopo qualche occhiata svogliata, però, in un batter baleno si sono dileguati scomparendo nei vicoli adiacenti, tranne un bambino».
«Scommetto che quando hanno capito che si trattava di libri sono scappati dal terrore…».
«Più o meno. Tuttavia quel ragazzino è rimasto incantato dal mio armamentario, dai volumi variopinti e dalla musica al punto da non volerne sapere di spostarsi dal muso del mio tre ruote. Sembrava che non volesse farmi ripartire. Allora gli ho detto di raggiungere gli amici per continuare a giocare con loro. Ma niente. Come se non mi sentisse. Poi all’improvviso mi ha fatto una domanda: “Verrai ancora a Oliveto?”».
«Ci tornerete ancora?» chiede Ciccio sempre più incuriosito.
Antonio La Cava volge lo sguardo distratto verso un punto indefinito della piazza come se stesse cercando qualcuno, quasi volesse risentire quella voce, quella domanda. Poi fissa le foglie immobili sui platani che li circondano, emette un profondo sospiro, abbassa la testa verso il selciato e risponde con fermezza: «Non ci sono dubbi. Durante il faticoso tragitto che mi ha condotto qui ho pensato molto a quel bimbo. E mi sono detto che è un dovere tornare da lui per premiare la sua curiosità. Questa è la mia missione. Girare per i piccoli paesi lucani e portare in prestito o in dono, anche a un solo bambino, la gioia di leggere un libro».
«Mi sembrate una specie di Babbo Natale della carta stampata…».
«Vedo che l’immaginazione non vi manca».
«Allora non mi ritenete un bislacco…» domanda compiaciuto Ciccio.
«Niente affatto, appunto mi piacerebbe portarvi qualche volta con me…».
Lo stridente risalire della serranda dell’American Bar trancia bruscamente la conversazione. Antonio La Cava strabuzza gli occhi incredulo, quasi fosse di fronte a un miraggio. Ma lo sferragliare della saracinesca lo riporta alla realtà. Allora, deciso più che mai, rivolgendosi a Ciccio esclama: «Era ora. Adesso ci possiamo scolare una bella Peroni ghiacciata».
«Ma non dovevamo andare a bere l’acqua a casa mia?».
«Stavolta veniamo meno al Vangelo».