Avevamo annunciato con entusiasmo l’evento materano di inizio novembre. La Fiera di Arte Pubblica si è conclusa nel migliore dei modi, le iniziative avanzate sono state portate a termine con successo, la città, e la periferia nello specifico, si è arricchita, fra le altre cose, con un’opera murale di Luis Gomez de Teran.
Abbiamo rivolto qualche domanda alla curatrice Stefania Dubla per approfondire i temi dell’iniziativa.
di Carlo Calza
Stefania Dubla, fondatrice dell’associazione no profit MAAP e curatrice della Fiera di Arte Pubblica a Matera. Da quanto tempo esistete come associazione, quali obiettivi vi ponete in una realtà come la vostra?
L’associazione si costituisce formalmente a giugno di quest’anno, ma la prima attività di MAAP risale al 2016 con un progetto di residenza artistica in couchsurfing nella città di Matera. Al tempo avevo il mio studio di curatrice all’interno di una struttura che affittava stanze in coworking a giovani professionisti. Passarono di lì artisti come Edoardo Tresoldi e il gruppo Streamcolors, e nacque allora l’idea di una residenza più fluida, dove artisti e comunità potessero realmente entrare in contatto tra loro condividendo l’esperienza del quotidiano. Presero parte al programma nomi noti all’arte contemporanea quali BR1 e Domenico dell’Osso. Con il primo iniziò una collaborazione più strutturata che lo ha portato poi tra i protagonisti di Matera 2019. Da allora ho iniziato a guardare all’arte pubblica nella sua funzione sociale, come un vero e proprio metodo di inclusione e di incremento del benessere comunitario. Con un piccolo gruppo multidisciplinare diviso tra Matera, Bologna e la Francia, ci siamo perciò costituiti in associazione per perpetrare questo obiettivo, non solo a livello locale.
Insieme allo staff di MAAP hai messo in piedi un progetto impegnativo e strutturato che vede il coinvolgimento di forze diverse e importanti. Quali sono le carte vincenti che vi hanno permesso di vincere la seconda edizione del banco “Creative Living Lab”, riuscendo quindi a finanziare questa ambiziosa iniziativa?
L’idea è senz’altro ambiziosa: creare la prima fiera di arte pubblica e sociale in Italia. In Europa si trovano difficilmente modelli simili e suppongo che il Ministero ne abbia apprezzato l’audacia. La strada aperta quest’anno da MAAP è stata quella di scardinare la struttura statica del sistema fieristico aprendola a prospettive in cui l’interesse sociale pervade quello economico, contaminandolo. Per dare forma a questo primo esperimento sul tema necessario era il confronto con personalità di rilievo nel mondo della rigenerazione, primo fra tutti l’architetto e professore Pierluigi Molteni, fondamentale per la definizione del progetto, e con gli artisti autori degli interventi pubblici: Luis Gomez de Teran, David Scognamiglio, Javier Reche Garay e i suoi collaboratori, Antonio Abatangelo e Lidia Serini. MAAP Fiera è nato dall’insieme di queste sensibilità, incrementato nei contenuti dagli interventi degli ospiti del progetto esponenti di esperienze esemplari nell’arte pubblica in Italia, come i festival Altrove (Catanzaro), Draw the Line (Campobasso), Invisibile-Ex Muracci Nostri (Roma), e i gruppi curatoriali di Inward – Osservatorio Nazionale sulla Creatività Urbana, e Pubblica dell’associazione Kill the Pig.
Entrando nel merito dell’evento, la scelta dei luoghi in cui inserire le opere d’arte non è casuale. Le periferie hanno il loro fascino decadente, ma necessitano anche di una particolare attenzione. Una riqualificazione ben studiata può convivere con l’identità ormai radicata di alcuni quartieri?
L’argomento sull’identità è al quanto articolato e la mancanza di una comprensione condivisa del termine è causa di catastrofi ideologiche di cui viviamo tutt’oggi gli effetti. Nel 2016 curai una mostra sul Paradosso dell’identità in un intreccio tra architettura, fumetto e fotografia, e oggi lavoro coniugando l’arte pubblica e l’inclusione sociale nelle nostre comunità che sono multietniche. Per la mia esperienza perciò l’identità non è che una moltitudine di diversità e i luoghi ne sono lo specchio: una stratificazione di storie, di passaggi, di cui si perde la memoria particolare in favore di una collettiva che crea una sempre nuova identità col trascorrere del tempo, di nuovi passaggi, di nuove storie.
I luoghi sono scrigni di memoria, soprattutto le periferie, in cui si vive una bellezza che è tale perché contrapposta a quella di un centro che detta altri ritmi e valori. È la ragione per cui ci manteniamo totalmente distanti dal concetto di gentrificazione. Il metodo di MAAP è diametralmente opposto: la bellezza della periferia sta nel suo essere tale, stravolgerla con un certo tipo di riqualificazione che la snatura per creare un nuovo centro non è nei nostri obiettivi, al contrario. Ascoltiamo i luoghi per renderli diversamente fruibili attraverso il cortocircuito generato dall’arte, che ribalta concetti e funzioni, e che innesca negli abitanti processi creativi fino ad allora sopiti. Un’area verde abbandonata è diventata un nuovo spazio abitabile attraverso un diverso gioco di luci, un muretto divorato dall’erba alta un piccolo anfiteatro per incontri pubblici, una parete emblema dell’abbandono lo spunto per una riflessione collettiva. I quartieri non hanno un’identità chiusa, ma viva e in continuo mutamento. Una buona riqualificazione sa ascoltare e non cerca di allestire contenitori a cloni di modelli di vita reputati come giusti. Un esempio: ci siamo liberati da spazi espositivi asettici del modello fiera per restituire all’opera il contesto di mostra e l’abbiamo fatto dentro i garage del quartiere: l’oggetto artistico ha dialogato e vissuto nel quotidiano delle persone normalmente escluse dall’elitarismo delle fiere e dell’arte che vi si espone. Aprire il proprio garage, la propria intimità, significa compiere un atto di fiducia verso il prossimo e il nuovo. Attraverso il contemporaneo si è così recuperata un’abitudine antica e comune, che a Matera si è persa con l’abbandono imposto dei Sassi a seguito della legge del risanamento del ‘52: la condivisione del vicinato, un’identità che appartiene tanto alla storia lucana quanto a quella universale.
Naturalmente le periferie si portano dietro anche dei temi sociali la cui rappresentazione è un po’ la mission della vostra associazione e delle vostre iniziative, con particolare attenzione al mondo della spiritualità e al tema del nomadismo? Che obiettivo vi ponete a riguardo?
Non intendiamo rappresentare i temi sociali, ma ri-sacralizziamo i luoghi attraverso l’arte perché possano essere vissuti con nuove funzioni che generino benessere collettivo e processi virtuosi portati poi avanti dagli stessi abitanti. Il nostro obiettivo è mostrare ad esempio come, attraverso l’arte, possa essere diversamente fruita un’area verde abbandonata, invogliando così l’abitante stesso a riappropriarsi di quella zona per renderla giardino per il vicinato, luogo di gioco per i bambini, anfiteatro per spettacoli teatrali, etc. Parliamo di sacralizzazione dei luoghi in senso totalmente laico, prossimo a un sentimento pre-linguistico, quindi lontano dalla decodificazione del mondo per mezzo della ragione. Il sacro è il luogo della convivenza degli opposti: uno spazio può essere questo ma anche altro e quell’altro è l’arte e la creatività a mostrarlo, tirandolo fuori. Sono generalmente i luoghi al margine a esaltare la forza dell’ambiguo, proprio perché spazi di confine e di continua contaminazione. Chi vive al margine, ad esempio in periferia, tende normalmente verso una situazione di nomadismo, di ricerca di un nuovo centro. Il ritorno al margine è la condizione di più profonda sincerità, perché la più vicina al sentimento di casa, di ritorno all’io. Sacro, margine e nomadismo sono i temi su cui abbiamo lavorato quest’anno, il filo conduttore che ha indirizzato la nostra ricerca in materia artistica e di rigenerazione con particolare attenzione alla loro declinazione site specific nel quartiere San Giacomo di Matera.
In che modo avete scelto gli artisti partecipanti alla Fiera di Arte Pubblica? C’era in voi la volontà di coniugare arte contemporanea, performance teatrali e street art per qualche precisa ragione?
Nell’idea che portiamo avanti di arte pubblica rientrano le discipline della pittura in strada, dell’installazione, del teatro, della danza purché site specific e destinate alla collettività. Sono come diversi arti di un corpo unico, e il coinvolgimento di ciascuno di questi era la condizione sine qua non per la definizione stessa di arte pubblica. La scelta degli artisti è derivata dalla stima per ciascuno di loro del lavoro compiuto in ambito di estetica sociale: David Scognamiglio per le sue sculture di luce che creano tra abitante e spazio un rapporto empatico e di fruizione emotiva, Javier Reche Garay e il suo team per la riflessione sulla labilità del concetto di identità attraverso movimenti collettivi che creano un’unica materia fluida, Luis Gomez de Teran per la sua straordinaria capacità di portare attraverso la propria arte le piazze d’Europa a interrogarsi su temi allo stesso tempo intimi e universali.